Inauguro la rubrica dedicata ai libri parlandovi di “Cuore di Seta - la mia storia italiana made in China” di Shi Yang Shi. Un libro prezioso che ci aiuta a capire, con la freschezza di una storia vera raccontata come fosse un romanzo, la vita dei cinesi in Italia.
Shi Yang Shi ha undici anni quando per la prima volta sale su un aereo alla volta dell’Yìdàlì, l’Italia. La sua famiglia ha deciso di emigrare alla ricerca di un futuro migliore, anche se, come racconta:
“Restando in Cina non avremmo certo sofferto la fame, anzi.”
Parte con Mama, sua madre, con la convinzione che il padre li raggiungerà presto e che per lui, in ogni caso, sarà un bellissimo viaggio.
Ma le cose iniziano subito a non andare per il verso giusto. Sua madre, che è medico, non ha la possibilità di esercitare la sua professione in Italia, e si ritrovano ospiti di alcuni zii, a fare i lavori più modesti. Come se non bastasse, il padre non si sente ancora pronto a lasciare né il suo lavoro di ingegnere né la vecchia madre e rimane in Cina, facendoli sentire abbandonati.
La loro emigrazione, invece di brillare come una meravigliosa opportunità, sta per rivelarsi un fallimento.
Yang si rende conto che solo impegnandosi nello studio avrà una possibilità di farcela. Impara perfettamente l’italiano e diventa uno studente modello. Ma le cose non sembrano migliorare, anzi: la madre inizia a soffrire per il fatto che il marito, tra una scusa e l’altra, ancora non li raggiunge. Diventa acida, depressa. Tra madre e figlio inizia ad incrinarsi qualcosa. E come se non bastasse, Yang deve fare i conti con una consapevolezza che gli toglie il respiro, da tanto la sua cultura d’origine la considera “sbagliata”: lui prova attrazione per i ragazzi.
Finalmente il padre arriva, con la volontà di iniziare un’impresa di import export tra Europa e Cina. Invece, per sbarcare il lunario, si ritrovano a fare i vucumprà. Ed è proprio con questa nuova attività che le cose iniziano a migliorare: Pietro (nome italiano che il padre si è scelto) inizia a fare massaggi e trattamenti sui meridiani ai bagnanti in spiaggia e poco a poco diventa una celebrità, permettendo finalmente alla famiglia di risollevarsi dalle ristrettezze economiche.
Yang, ancora immerso nella cultura confuciana che lo vuole un figlio modello, si diploma in ragioneria con 99/100, diventa nel frattempo traduttore, si iscrive alla Bocconi, aiuta economicamente i suoi genitori. E lotta con la certezza di essere gay.
Alla fine riuscirà finalmente ad essere se stesso, a farsi accettare dai genitori nella sua più profonda essenza, a scoprire il suo vero talento e ad inseguire il suo sogno.
Il libro è scritto con un linguaggio semplice e diretto, Yang si racconta senza peli sulla lingua e senza imbarazzo. Parla molto della sua vita in Cina prima della partenza ed ho trovato interessante seguire la sua trasformazione:
“Se in Italia ero un cinese, in Cina non ero più solo e soltanto cinese, ma nemmeno italiano. Ero diventato anch’io laowai, straniero, o peggio “banana”: giallo fuori e bianco dentro.”
Come expat in Cina, mi ritrovo molto in questa frase: spesso in Italia mi sento “diversa” e mi mancano alcune abitudini che ho assorbito qui, mi rendo conto che alle volte i miei compatrioti mi guardano stranamente perché faccio cose che in Italia non si farebbero, come ad esempio bere l’acqua calda o avvicinare il piatto alla bocca mentre mangio.
Il libro di Yang mi è piaciuto molto, perché è di facile lettura eppure profondo, a tratti poetico. Mi ha permesso di gettare uno sguardo in una realtà di cui si parla poco. Consiglio questo libro a tutti: agli italiani che si sono trasferiti in Cina, per capire un po’ il viaggio “alla rovescia” dei loro colleghi cinesi, e agli italiani in generale, perché ne sappiamo davvero troppo poco dei cinesi in Italia.
Ho contattato Yang per fargli alcune domande, è stato gentilissimo e lo ringrazio per la sua disponibilità!
Leggendo il tuo libro, ho notato come descrivi il tuo arrivo nella scuola italiana e come tutti hanno cercato, in qualche modo, di farti sentire benvenuto. Come sono gli italiani da questo punto di vista? Sei mai stato soggetto di commenti o comportamenti razzisti?
Quando sono arrivato in Italia i miei zii mi hanno iscritto di proposito in una scuola dove non c’erano altri cinesi, a parte mia cugina, e l’hanno fatto per permettermi di ricevere quel rispetto che magari in una scuola piena di cinesi non avrei avuto. Difatti i miei compagni mi hanno accolto sempre bene e da ragazzino non ho mai subito episodi di razzismo.
Rammento solo due fatti brutti: uno lo racconto nel libro (sono stato rincorso!), l’altro mi è successo durante gli europei di calcio, ero su un tram a Milano ed ero al finestrino anche io a urlare e festeggiare, quando ho ricevuto uno sputo in faccia. Ma non sono sicuro che sia stato per razzismo, o per cattiva tifoseria.
Devo dire che anche durante gli anni che ho trascorso a Prato sono stato testimone più di intolleranza, legata a specifici motivi, che non di razzismo. Solo nel periodo pre - elettorale ho chiaramente percepito un clima peggiore nei confronti degli immigrati e rifugiati, per via di una certa comunicazione manipolativa.
Una cosa che mi ha colpito molto leggendo la tua storia, è che tu e tua madre, essendo originari di Jinan, non siete mai riusciti a legare molto con la comunità cinese italiana, che viene in gran parte dalla zona di Wenzhou. E’ una cosa dovuta al dialetto da loro parlato, o più uno scoglio culturale dovuto alla provenienza da diverse regioni della Cina?
Trent’anni fa, quando sono arrivato dalla Cina, il divario tra campagna e città era molto forte. Noi venivamo dalla città e un po’ discriminavamo quelli della campagna. Poi, in realtà, noi eravamo più poveri: loro, quei meridionali cinesi immigrati in Italia, erano già “laoban”, ovvero padroni di attività e comunque in qualche modo “arrivati”.
Credo che un elemento di chiusura dei Wenzhouesi derivi dal loro dialetto e dalla cultura “montanara”, anche se di fatto è una città sul mare. Sono molto legati al loro territorio (pensa che a Milano ci sono sedici associazioni territoriali!) ed hanno un sistema di guanxi molto forte, che è anche uno dei motivi del loro successo. Dopotutto due terzi degli abitanti dei tanti paesini-contee limitrofi si sono spostati ed hanno lasciato in Cina solo vecchi e bambini!
E’ anche per questo che noi abbiamo fatto molta fatica ad integrarci all’interno di questa comunità.
Tu sei un cinese che è andato a vivere in Italia, io sono un’italiana che è andata a vivere in Cina: conosciamo decisamente bene le differenze tra i due stili di vita. Ma, per quanto riguarda invece le somiglianze, cosa ti ha colpito nella cultura italiana?
L’attaccamento alla famiglia ed ai valori tradizionali come la cucina: quando alle presentazioni del libro racconto dei ravioli cinesi, in molti si entusiasmano trovando somiglianze con la preparazione dei tortellini e dei cappelletti italiani. Anche se, purtroppo, noto che tra i giovani si sta un po’ perdendo la tradizione di prepararli insieme alla famiglia. Altra somiglianza con i cinesi: anche in Italia sono quasi sempre le donne che cucinano i cibi tradizionali durante le feste.
Una somiglianza negativa è la tendenza a cercare dei compromessi, soprattutto per quanto riguarda il meridione. I rapporti umani sono quasi più forti della legge e sono le consuetudini ad essere più seguite. Anche in Cina,in alcuni contesti, le relazioni fiduciare sono più importanti e determinanti rispetto alle regole scritte.
Che cosa potrebbero imparare gli italiani dai cinesi, e che cosa potrebbero imparare i cinesi dagli italiani.
Gli italiani dai cinesi potrebbero recuperare lo spirito pragmatico e non lamentoso, tipico loro degli anni ’50 e ’60, che puntava soprattutto al fare. E, per quanto riguarda i giovani, la prospettiva del lungo periodo. Nei ragazzi cinesi, anche quelli di seconda generazione in Italia, è molto forte l’idea del guardare lontano, cosa che invece manca ai giovani di origini italiane.
I cinesi dagli italiani, invece, potrebbero imparare a riscoprire il rapporto con le proprie radici storiche, umanistiche e intellettuali, in modo da creare un Made in China più espressione del proprio DNA, meno copiato, e un design che rilegga la contemporaneità consapevole del gusto antico cinese. Inoltre, per quanto riguarda l’educazione dei figli, potrebbero imparare a lasciarli giocare di più, affinché possano far emergere il proprio talento. In Cina i talenti vengono purtroppo annientati dal sistema scolastico che tende a livellare.
Shi Yang Shi è nato nel 1979 a Jinan, capitale dello Shandong. È arrivato in Italia nel 1990 e dal 2006 è cittadino italiano. Nella sua vita ha fatto il lavapiatti, il venditore ambulante, il traduttore simultaneista e il mediatore culturale. Laureato alla Bocconi, ha intrapreso la carriera di attore ed ha recitato nel teatro indipendente a Prato per sette anni. Ora è impegnato a portare in giro per l’Italia il suo spettacolo "ArleChino, traduttore e traditore di due padroni", che racconta del suo tentativo di recuperare le proprie radici attraverso la storia dei suoi avi, dei suoi anni in Italia e dei fatti di Prato.
Prossime date delle presentazioni: Venezia Ca' Foscari 4 aprile, Brescia 5 aprile, Milano 12 Elicoides + 24 maggio ai Frigoriferi Milanesi, Biella 5 maggio
Date spettacoli: 11 Agliè, 13 Montepulciano.
Trovate “Cuore di seta” nelle librerie e su amazon.it (formato cartaceo e kindle) e se volete sapere tutte le ultime novità sulle presentazioni del libro e gli spettacoli teatrali potete seguire Yang alla sua pagina Facebook.
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