Immaginate la Cina del 1880. Immaginate come doveva essere per uno straniero vivere nelle campagne dello Jiangsu in quei tempi lontani. Niente WeChat, niente grattacieli di acciaio e specchi, niente treni proiettile. Povertà, sporcizia e malattie. E il soprannome di “diavolo bianco” sempre appiccicato addosso.
“L’esilio” è un libro scritto nel 1936 da Pearl S. Buck, la famosa scrittrice americana che magistralmente ha raccontato la Cina nelle sue opere, e narra la storia di sua madre, Carie, che fu missionaria in Cina a cavallo tra il dicianovesimo e ventesimo secolo. Biografia che traccia con realismo le tappe della vita di Carie, il libro è anche un appassionante romanzo.
Carie parte per la Cina seguendo il marito Andrew (il padre della Buck, il cui vero nome era Absalom), un missionario totalmente immerso nel suo proselitismo, al quale si lega nella speranza che un giorno Dio le dia un segno, parlando alla sua anima. Questo segno da parte di Dio non arriverà mai, arriveranno anzi momenti bui, numerosi e terribili lutti (perderà quattro dei suoi sette figli in Cina) e tanta solitudine, in quanto il marito sarà sempre in giro nelle campagne cinesi a cercare di convertire fedeli, cieco ai bisogni della famiglia e totalmente assorbito dalla sua missione. La protagonista si dibatte tra la sua educazione presbiteriana, severa e puritana, e il carattere vivace ed allegro, che ama la bellezza. I suoi dubbi religiosi la tormenteranno durante tutto il corso della storia, e questo contrasto la rende un personaggio vivo, umano, attualissimo.
Quello che più mi ha stupefatto nel libro sono i punti di contatto che ho trovato tra la moglie del missionario, una sorta di sposa accompagnante ante litteram e la mia storia di expat moderna nel Celeste Impero. Non certo le difficoltà della vita quotidiana (leggete questo libro se pensate che vivere nella Cina oggi sia difficile!), ma le sensazioni, i dubbi e le nostalgie che accompagnano la scelta di trascorrere la propria esistenza in un paese così diverso da quello di origine.
Carie discendeva da una vera famiglia di pionieri americani, arrivati dall’Olanda nel diciannovesimo secolo e stabilitisi in West Virginia. Gente forte, lavoratrice, mossa da un’incrollabile fede nel Signore. La ragazza cresce circondata da foreste, nella linda magione di famiglia dove si produceva tutto in casa e dove, alla sera, genitori e fratelli si riunivano intorno all’organo e cantavano inni gioiosi.
Come si sarà sentita quando, vestita con un semplice abito color tortora (che fu sia abito da viaggio che di nozze, in quanto non si addiceva ad una missionaria sposarsi agghindata con pizzi e merletti) è salita sulla nave che, attraverso il Pacifico, l’avrebbe portata in quello sconosciuto paese che era la Cina?
La prima sensazione è una cocente delusione:
“Avvicinandosi alla Cina si aspettavano di vedere le coste accidentate e pittoresche (…) Ma fu una delusione. Il fiume Yangtse sfociava massiccio e pigro nel mare, e le acque gialle e fangose si distinguevano nettamente dalla chiara acqua marina, con la quale non si mescolavano. Avvistata la terra, a entrambi i fianchi della nave comparvero rive lunghe, fangose. Doveva ella trascorrere la vita in una tarra senza bellezza?”
E a questo passaggio il mio cuore ha fatto il primo balzo nel petto: quante volte sfrecciando a bordo di un taxi sulle sopraelevate di Suzhou, mi ha colpito come un pugno la bruttezza dei casermoni di cemento squadrati, scrostati, grigi sullo sfondo di un cielo grigio?
Ed alzi la mano chi di voi, amiche expat in Cina, non si è mai sentita così:
“Presto ella cominciò a veder la Cina per quello che realmente era; un gran paese di contraddizioni, dove quanto c’è di più bello nella natura e nella umana condizione, è inestricabilmente mescolato con quanto c’è di più triste. Un complesso di bellezza e di dolore che talvolta stranamente la legava al pese d’adozione, ma che talaltra la costringeva a rifugiarsi in camera sua, presa da un senso profondo di repulsione. Erano quelli i momenti nei quali più sentiva la nostalgia della patria e della casa dei suoi.”
O l’idealizzazione del paese di provenienza…
“Raccontava storie, e insegnò loro a non imitare certe cose che vedevano accadere attorno a sé. Diceva: “Noi non ci comportiamo così! Siamo di un’altra razza!” (…) per i figli di Carie, l’America rimarrà un paese magico, nel quale non sarà necessario far bollire l’acqua prima di berla: e dove mele, pere e pesche possono essere colte dalla pianta, e mangiate tranquillamente, così come sono.”
Ho sorriso quando ho letto questo passaggio, pensando a come, quando torniamo in Italia, ci piace attaccarci con la bocca direttamente al rubinetto e bere a sazietà. Oppure alla gioia di visitare il frutteto degli zii e mangiare prugne e i fichi raccogliendoli direttamente dagli alberi, dolcissimi sotto il sole estivo.
Non è forse difficile, per una mamma italiana, cercare di insegnare ai figli non solo la lingua del proprio paese, ma le tradizioni e la buona educazione così come viene intesa nel Bel Paese?
“L’assillava il pensiero di non riuscire a tirar su i figlioli nel clima morale e intellettuale della patria lontana (…) In un paese nel quale tutto tendeva a dargli un’opinione falsa ed esaltata di sé (non era il primogenito? Non era un maschio?) era difficile inculcargli i doveri di cortesia (…) La servitù lo trattava con deferenza eccessiva (…) tutti influssi contro i quali Carie trovava piuttosto difficile la lotta.”
E, infine, la sensazione di estraneamento dal tuo paese che ti coglie dopo qualche anno di espatrio. Tornare in Italia e sentire drammaticamente che sei cambiato e che nemmeno là puoi considerarti davvero a casa tua. Ormai sei un pesce fuor d'acqua.
“Per ventidue anni aveva vissuto lontano dalla patria; dalla patria che portava tutta nel cuore - la terra più bella, la migliore, benedetta da Dio. Ma la nicchia che in patria era stata sua, ora stava per chiudersi. Durante quei vent’anni, i fratelli e le sorelle avevabo imparato a vivere senza di lei (…) sì, essa aveva lasciato l’America, e l’America s’era dimenticata di lei. Tornandovi — dato che vi fosse mai tornata — per stabilirvisi definitivamene, essa avrebbe dovuto crearsi una nuova nicchia."
La famiglia di Absalom, Carie sulla destra (foto Wikipedia) |
Questo splendido libro non è purtroppo più in commercio, come, ahimè, molti altri romanzi della Buck. Ed è un peccato, perché la scrittrice è riuscita a descrivere e comprendere la Cina di quei tempi, pur essendo straniera, e andrebbe letta da chiunque voglia capire la Cina odierna. Lo potete trovare usato su Amazon.it o in qualche fornita biblioteca.
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