venerdì 19 settembre 2014
CHINATOWN E LITTLE ITALY
Come cambiano le prospettive quando impari ad essere tu “lo straniero”, quando (sebbene tu sia un emigrato “di lusso” e nessuno dimostri apertamente di disprezzarti) la vecchietta che incontri ogni mattina in ascensore, se la vedi per strada fa finta di non riconoscerti e non risponde al tuo “Ni hao!” e tu ti chiedi se è un fatto culturale, di abitudine o chissà che altro. O quando, al parchetto, circondata da nonni cinesi, nessuno ti rivolge la parola (tanto pensano che tu, della loro lingua, non capisci un tubo).
Anni fa lavoravo in un ufficio. La zona degli uffici, nella mia città, è quella centrale. Quella che, una volta, era disseminata di negozietti, i cosiddetti “jeansinari”, che vendevano vestiti a poco prezzo agli (allora) jugoslavi, i quali passavano il confine a frotte e tornavano in patria coi borsoni di plastica pieni di merce a basso costo che dalle loro parti non si trovava.
Poi la zona dei jeansinari è diventata Chinatown: hanno cominciato ad apparire “come germogli di bambù dopo la pioggia” (per dirla all'orientale!) negozi di abbigliamento gestiti da cinesi.
Ricordo la faccia del mio capo quando si è accorto di essere circondato da negozi cinesi: davvero poco prestigioso per uno studio commercialista! E allora si è spostato di qualche isolato. La cosa buffa? Anche i negozi cinesi si sono allargati e, dopo pochi mesi, la situazione era identica a prima. Poi i cinesi hanno cominciato a fare affari con i suoi clienti, che vendevano gli ex negozi di jeans a peso d'oro. E allora sono diventati improvvisamente meno temibili.
Nella mia città, con un'ordinanza comunale, avevano proibito ai negozianti cinesi di appendere le lanterne rosse fuori dai negozi. Allora mi era sembrata una notizia poco rilevante ma, dopo il mio arrivo in Cina, mentre imparavo a conoscere questa società complessa e contraddittoria, mi sono chiesta spesso se quella regola avesse un senso o fosse solo un'angheria.
Dicevo allora: “I cinesi sono un gruppo chiuso: comprano nei loro negozi, stanno solo tra connazionali e parlano solo la loro lingua. Non si integrano col tessuto della città e sono una comunità a se' stante”
Poi sono arrivata in Cina, in una città dove gli stranieri sono molti. E, con grande stupore, ho visto che gli italiani stanno con gli italiani, gli spagnoli con gli spagnoli, gli americani con gli americani e così via. Ognuno frequenta con maggior assiduità gli appartenenti al proprio gruppo linguistico. E, dulcis in fundo, tutti invadono a frotte i negozi di prodotti importati per comprare salsa, pasta, cioccolato, tacchino dei paesi suoi. Nemmeno le verdure comprano al mercato.
E mi sono vergognata. Mi sono sentita stupida perché avevo giudicato senza sapere nulla, avevo sparato a zero senza cercare minimamente di comprendere o immedesimarmi.
“Eeh, i cinesi sono un gruppo chiuso!” mi dicono sempre quando torno in Italia e si discute di Cina. E io vorrei dire: perché, noi no? Amiamo talmente tanto il nostro Bel Paese che cerchiamo di ricreare una Piccola Italia in miniatura. Che, da un certo punto di vista, non è nemmeno sbagliato perché ti aiuta a conservare l'identità nazionale. Ma quando questo atteggiamento ti preclude l'occasione di conoscere gente che viene da altri posti, culture diverse, modi di fare dissimili, allora sì: è proprio un peccato! Non a tutti capita la fortuna di vivere un periodo all'estero (sì, ho detto fortuna, perché secondo me, per quanto possa essere difficile abituarsi alla nuova vita, è davvero un'occasione d'oro che, se sfruttata bene, fa crescere tutta la famiglia) e sprecare i momenti vissuti lontano macerandosi nella nostalgia o lamentandosi, alla lunga diventa una perdita di tempo. Ma, di expat felici e infelici, vi parlerò in uno dei prossimi post...