venerdì 26 settembre 2014

ADDIO SCUOLA


Il titolo è un po' drammatico... la scuola resta sempre la stessa, gli insegnanti e i compagni pure. Cambia solo la struttura, si trasferiranno a circa dieci minuti di macchina da dove sono ora: una scuola più grande, appena costruita, con la piscina, il trenino nel giardino, il teatro. Finite le vacanze di ottobre (qua in Cina il primo ottobre è la celebrazione della fondazione della PRC, festa grande e una settimana di vacanza) inizieranno a prendere lo scuolabus per andare nella nuova sede.
Ma io e i bimbi, pur contenti del cambio, sentiamo già la nostalgia di quella vecchia.
Mi mancherà il contatto giornaliero con l'asilo... portarli ogni mattina e riprenderli il pomeriggio, poter parlare di persona con gli insegnanti, incontrare le altre mamme.
Scambiare due parole con le segretarie, con il preside (che, lungi dall'essere un uomo serioso, sembra un grande bambinone!), salutare il portiere, le guardie, le infermiere che ogni mattina controllano mani e bocca dei bimbi per vedere che non abbiano qualche malattia infettiva.
Mi mancherà il casino di macchine fuori dal portone, che le guardie messe dal management del Bayside Garden, il compound dove si trova l'asilo, non riescono in nessuna maniera a gestire.
Mi mancherà il profumo di cibo proveniente dalle cucine al mattino presto, e il sorriso dell'ayi (la bambinaia) che la Pupella aveva avuto il primo anno e che continua ad abbracciarla ogni volta che la vede.
Mi mancherà la musica dei morning exercises, e potermi fermare qualche istante a guardare i miei bimbi  ballare e saltare coi loro compagni.
Mi mancherà andare a prenderli e guardarli giocare nel giardino, magari senza che mi vedano, per capire com'è che si comportano quando la mamma non è nei paraggi.
Mi mancheranno perfino quei muri di cemento un po' scrostati, il suo tipico aspetto di costruzione cinese che dopo pochi anni sembra già malandata.
Mi macherà l'atmosfera della scuola, che mi metteva il buonumore ogni volta che ci entravo, tanto da farmi desiderare di ritornare piccina e poterci andare anch'io!

venerdì 19 settembre 2014

CHINATOWN E LITTLE ITALY


Come cambiano le prospettive quando impari ad essere tu “lo straniero”, quando (sebbene tu sia un emigrato “di lusso” e nessuno dimostri apertamente di disprezzarti) la vecchietta che incontri ogni mattina in ascensore, se la vedi per strada fa finta di non riconoscerti e non risponde al tuo “Ni hao!” e tu ti chiedi se è un fatto culturale, di abitudine o chissà che altro. O quando, al parchetto, circondata da nonni cinesi, nessuno ti rivolge la parola (tanto pensano che tu, della loro lingua, non capisci un tubo).
Anni fa lavoravo in un ufficio. La zona degli uffici, nella mia città, è quella centrale. Quella che, una volta, era disseminata di negozietti, i cosiddetti “jeansinari”, che vendevano vestiti a poco prezzo agli (allora) jugoslavi, i quali passavano il confine a frotte e tornavano in patria coi borsoni di plastica pieni di merce a basso costo che dalle loro parti non si trovava.
Poi la zona dei jeansinari è diventata Chinatown: hanno cominciato ad apparire “come germogli di bambù dopo la pioggia” (per dirla all'orientale!) negozi di abbigliamento gestiti da cinesi.
Ricordo la faccia del mio capo quando si è accorto di essere circondato da negozi cinesi: davvero poco prestigioso per uno studio commercialista! E allora si è spostato di qualche isolato. La cosa buffa? Anche i negozi cinesi si sono allargati e, dopo pochi mesi, la situazione era identica a prima. Poi i cinesi hanno cominciato a fare affari con i suoi clienti, che vendevano gli ex negozi di jeans a peso d'oro. E allora sono diventati improvvisamente meno temibili.
Nella mia città, con un'ordinanza comunale, avevano proibito ai negozianti cinesi di appendere le lanterne rosse fuori dai negozi. Allora mi era sembrata una notizia poco rilevante ma, dopo il mio arrivo in Cina, mentre imparavo a conoscere questa società complessa e contraddittoria, mi sono chiesta spesso se quella regola avesse un senso o fosse solo un'angheria.
Dicevo allora: “I cinesi sono un gruppo chiuso: comprano nei loro negozi, stanno solo tra connazionali e parlano solo la loro lingua. Non si integrano col tessuto della città e sono una comunità a se' stante”
Poi sono arrivata in Cina, in una città dove gli stranieri sono molti. E, con grande stupore, ho visto che gli italiani stanno con gli italiani, gli spagnoli con gli spagnoli, gli americani con gli americani e così via. Ognuno frequenta con maggior assiduità gli appartenenti al proprio gruppo linguistico. E, dulcis in fundo, tutti invadono a frotte i negozi di prodotti importati per comprare salsa, pasta, cioccolato, tacchino dei paesi suoi. Nemmeno le verdure comprano al mercato.
E mi sono vergognata. Mi sono sentita stupida perché avevo giudicato senza sapere nulla, avevo sparato a zero senza cercare minimamente di comprendere o immedesimarmi.
“Eeh, i cinesi sono un gruppo chiuso!” mi dicono sempre quando torno in Italia e si discute di Cina. E io vorrei dire: perché, noi no? Amiamo talmente tanto il nostro Bel Paese che cerchiamo di ricreare una Piccola Italia in miniatura. Che, da un certo punto di vista, non è nemmeno sbagliato perché ti aiuta a conservare l'identità nazionale. Ma quando questo atteggiamento ti preclude l'occasione di conoscere gente che viene da altri posti, culture diverse, modi di fare dissimili, allora sì: è proprio un peccato! Non a tutti capita la fortuna di vivere un periodo all'estero (sì, ho detto fortuna, perché secondo me, per quanto possa essere difficile abituarsi alla nuova vita, è davvero un'occasione d'oro che, se sfruttata bene, fa crescere tutta la famiglia) e sprecare i momenti vissuti lontano macerandosi nella nostalgia o lamentandosi, alla lunga diventa una perdita di tempo. Ma, di expat felici e infelici, vi parlerò in uno dei prossimi post...

martedì 9 settembre 2014

MID AUTUMN FESTIVAL: LANTERNE, SOGNI E DESIDERI


Ieri, qui in Cina, è stata celebrata la festa di metà autunno, che ricorre il quindicesimo giorno dell'ottavo mese lunare e che è originata, come tutte le feste tradizionali cinesi, da una (o più di una?) leggende mitologiche del passato.
La scuola ha chiuso un giorno solo e i negozi sono rimasti aperti come sempre... la Cina non si ferma quasi mai lasciando gli expat italiani sempre un poco sorpresi: noi che si approfitta di ogni ponte per avere un giorno in più di ferie... qua invece lavorano anche di notte.
In questi giorni, è tradizione mangiare assieme ai familiari le Moon Cake, i tipici dolcetti, e osservare la luna piena.
Una delle tradizioni che più trovo suggestive è quella di accendere le “Sky lantern”, ovvero lanterne di carta con un piccolo quadratino infiammabile nella parte bassa. Quando la fiamma comincia a svilupparsi, pian piano la lanterna si gonfia d'aria calda e, al momento opportuno, viene lasciata volare nel cielo.
Mi piace pensare che ognuna di queste lanterne sia un desiderio che vola alto verso il firmamento e, sebbene conscia che tutti gli esseri umani nel loro profondo sono uguali, mi chiedo quali siano i desideri dei cinesi...
Poco tempo fa  è stata coniata una definizione nuova, il “Chinese Dream”. Anche se principalmente il sogno cinese riguarda i beni materiali, ovvero riuscire a garantire a tutta la popolazione una vita soddisfacente dal punto di vista economico, ammetto che il concetto mi ha affascinata.  È la parola “sogno” che secondo me è geniale, ti fa sentire di essere parte di un qualcosa di più grande. Beh... chi di noi non è stato affascinato dall'American Dream? Anche quello è partito come un sogno prettamente economico, per poi assumere nel nostro immaginario connotazioni di ogni tipo.
La Cina è una società materialista anche perché c'è ancora tanta povertà e il denaro viene visto come la meta finale per una vita felice. Quello che io mi auguro, per le nuove generazioni di cinesi, è che si rendano conto che c'è anche quel “qualcosa in più” che rende la vita degna, non solo il possedere una Maserati, una borsa di Prada o un grande appartamento nuovo. Quella scintilla che, come il fuoco nella lanterna, permette al tuo spirito di volare alto e vedere gli affanni della vita da una prospettiva diversa. Ma poi penso, ci siamo riusciti noi occidentali, in questo? Nonostante la nostra storia, la nostra libertà di pensiero, il nostro background culturale? Quanta gente infelice e insoddisfatta vedo ancora in giro?
Pensieri forse troppo pipposi, torniamo alle lanterne! Qui nel SIP di Suzhou, la gente usa ritrovarsi sulle rive del JinJi Lake, verso le nove e mezza di sera, per accenderle e farle volare nel cielo. La qual cosa, detta così, sembra facile: ma vi assicuro che riuscire a far decollare l'infernale arnese è tutt'altro che semplice! La sera della “vigilia”, siamo andati anche noi sul JinJi ed abbiamo assistito a scene epiche: voli in acqua per salvare una lanterna che si stava afflosciando, lanterne assassine che, invece di volare verso l'alto, si scagliavano minacciose contro la gente seduta ai bordi del lago, altre che prendevano miseramente fuoco accartocciandosi su se stesse, prima di riuscire a salire anche di solo mezzo metro. Complice un vento birichino che rendeva difficile anche l'accensione dello stoppino.


Ad ogni tentativo mancato, l'oooooh della folla. Ad ogni tentativo coronato dal successo, grida di giubilo e qualche applauso. Il nostro gruppetto di italiani (quando c'è casino da fare non ci tiriamo indietro) era in prima fila a fare il tifo. Quando è toccato a noi laowei accenderla, però, non è stato tutto rose e fiori e il nostro coraggioso amico ha scelto un angolino in disparte per difendersi, ha detto lui, dal vento inopportuno. Secondo me c'era troppo pubblico intorno!
Il giorno dopo, dalla finestra di casa nostra che si affaccia sul lago, tra gli alti palazzi illuminati ho visto tante altre lanterne volare nel cielo (e come riescono a salire in alto!). Le ho salutate ed ho augurato loro buona fortuna, mentre in lontananza esplodevano colorati fuochi artificiali.

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